MORTALITÀ AL PRIMO ANNO DAL TRAPIANTO ALLOGENICO E FATTORI SOCIO-ECONOMICI: PUO’ ESISTERE UNA RELAZIONE?
Jamy et al. (2020) hanno tentato di rispondere alla seguente domanda di ricerca: esiste una relazione tra luoghi di residenza “svantaggiati” in termini di condizioni socio-economiche e distanza dal centro di cura e cause di mortalità ad un anno dal trapianto allogenico? Questo interessante articolo del gruppo di studio della Division of Hematology and Oncology, University of Alabama Birmingham, USA, è andato proprio ad indagare l’incidenza e le cause di mortalità e la relazione di quest’ultime con alcune nuove “variabili” di seguito descritte.
Lo studio, di coorte retrospettivo, ha messo in risalto l’elevata mortalità durante il primo anno post trapianto prendendo in considerazione variabili quali l’età, il sesso, la razza, le comorbilità, lo stato di remissione di malattia al momento del trapianto, la fonte di cellule staminali, il tipo di regime di condizionamento, l’eventuale ricorso alla radioterapia pre-trapianto, la comparsa di GVHD (acuta o cronica); come variabili “innovative” sono state prese in considerazione l’eventuale residenza del paziente in area a basso livello socio-economico e le difficoltà di cure post trapianto dovute alla distanza dal centro ematologico.
I dati sono stati ottenuti dalle cartelle cliniche mentre per la statistica inferenziale è stata utilizzata l’analisi di sopravvivenza mettendo in rapporto l’evento “morte” con il fattore tempo ad un anno; la metodologia adottata a tale scopo è stata quella univariata di Kaplan-Meier.
Lo studio ha preso in considerazione 304 pazienti sottoposti a trapianto allogenico. Di questi, il 51.3% era di sesso maschile e l’81.9% era di razza bianca non ispanica. La leucemia mieloide acuta era la principale indicazione al trapianto mentre l’età media osservata è stata di 52.1 anni (range 18.1-72.3). Del campione, il 73.7% è stato sottoposto a regime di condizionamento mielo-ablativo, il 58.6% era in remissione completa ed oltre la metà aveva ricevuto cellule da donatore non familiare; il 34.9% dei pazienti è stato trapiantato con un donatore aploidentico mentre il 15.8% risiedeva in aree a basso livello socio-economico/distante dal centro trapiantologico di appartenenza.
La sopravvivenza ad un anno della coorte è stata del 60.5%; nel medesimo periodo, i tassi di mortalità per tutte le cause per i pazienti appartenenti al gruppo residente in area a basso livello socio-economico/distanza dal luogo di cura e per i restanti pazienti osservati sono stati rispettivamente del 45.8% e del 38.4% (p = 0.3).
Questo studio, che presenta limiti oggettivi attribuibili alla numerosità campionaria, troppo piccola per uno studio retrospettivo di coorte, dimostra che, nonostante esista una correlazione tra ridotto livello sociale e aumento della mortalità nel primo anno, le principali cause di morte risultano essere ancora la GVHD e le comorbilità del paziente stesso.
Il trapianto allogenico, è spesso l’unica possibilità di guarigione per i pazienti con patologie ematologiche; tuttavia, la mortalità all’interno del primo anno rimane ancora alta. Oggi, la decisione di procedere al trapianto allogenico è legata ad una varietà di fattori clinici prognostici che possono indirizzare verso una “ragionevole” fattibilità del trattamento libero da eventi “inattesi” entro il primo anno post trapianto; tale approccio consente in definitiva di offrire un trapianto allogenico relativamente “sicuro” ad una più vasta platea di pazienti, compreso quello unfit. Questo è dovuto anche dalla disponibilità di nuovi e vari regimi di condizionamento adattabili al singolo paziente ed a fonti alternative di CSE.
Elemento interessante, introdotto da questo studio, risiede nel monitoraggio del livello socio-economico del paziente attraverso dati provenienti dal luogo di residenza; questo aspetto può rappresentare uno strumento predittivo della mortalità nel primo anno post trapianto. Comunque la scelta di candidare un paziente a trapianto allogenico comporta ancora un processo di selezione attento e complesso; come dimostrato in questo studio, tale processo poterebbe beneficiare di un approccio “combinato” che consideri, oltre ai classici aspetti legati all’età, alle comorbilità, ecc., anche aspetti legati al livello socio-economico del paziente e all’accessibilità a luoghi di cura, tutto a garanzia del “buon esito” del trattamento.