Chi la dura la vince
Kramer et al riportano i risultati a lungo termine, di un trial di trapianto allogenico con condizionamento ad intensità ridotta nella leucemia linfatica cronica ad alto rischio, dimostrando che il 34% dei pazienti sono vivi e liberi da malattia (guariti!) ad una mediana di 10 anni di follow-up dal trapianto e tali risultati sono indipendenti dalla presenza di indici di prognosi sfavorevole, come le alterazioni della p53.
Il trapianto allogenico nella leucemia linfatica cronica (LLC) è indicato nei pazienti che presentano o sviluppano indici biologici sfavorevoli, come le mutazioni o le delezione della p53, o/e che hanno una malattia ricaduta-refrattaria dopo chemio-immunoterapia. Recentemente i farmaci inibitori del recettore dei linfociti B (BCR), come l’ibrutinib e l’idelalisib, somministrati in modo continuativo hanno dimostrato di ottenere risposte cliniche ed ematologiche durature proprio in queste categorie di pazienti, mettendo in discussione le indicazioni convenzionali al trapianto allogenico anche nei pazienti giovani. D’altra parte è noto che i nuovi farmaci non eradicano la malattia in quanto la maggior parte dei pazienti non raggiunge una risposta completa e può sviluppare nel tempo mutazioni del BCR che inducono resistenza ai nuovi farmaci. Per sviluppare i nuovi algoritmi terapeutici nella LLC, è importante acquisire informazioni sui risultati a lungo termine degli studi di trapianto allogenico eseguiti lo scorso decennio, in modo da capire quanti pazienti possono essere considerati “guariti” e qual è la tossicità a lungo termine.
Tra il 2001 e il 2007 90 pazienti con LLC ad alto rischio, un terzo dei quali con mutazione della p 53 e 20% dei quali con malattia refrattaria alla chemio-immunoterapia , hanno ricevuto un trapianto allogenico dopo condizionamento a ridotta intensità che associava fludarabina ed alchilanti da un donatore familiare HLA-identico (40%) o da registro (60%) all’interno di un protocollo prospettico coordinato dall’Università di Heidelberg. Ad un follow-up mediano di 9,7 anni, la mortalità da trapianto è del 20%, la sopravvivenza libera da progressione (PFS) è del 34% e la sopravvivenza globale (OS) è del 51%. I pazienti che presentavano prima del trapianto una delezione o una mutazione della p53 hanno ottenuto risultati clinici simili, suggerendo che il trapianto allogenico è in grado di superare l’impatto sfavorevole sull’outcome conferito da questi indici prognostici biologici. La malattia attiva al trapianto e l’utilizzo di alentuzumab nella profilassi della GVHD sono risultati invece fattori associati ad un outcome sfavorevole. Infatti , i pazienti che non avevano questi fattori avversi, cioè pazienti con LLC ancora sensibile alla chemioterapia di salvataggio prima del trapianto autologo e che non hanno ricevuto alentuzumab, presentano una PFS a 10 anni del 41% e una OS del 61%. I marcatori associati ad una prognosi favorevole dopo il trapianto sono risultati essere l’assenza di malattia minima residua a 12 mesi dal trapianto allogenico e lo sviluppo di una GVHD cronica. Questo studio ha infatti dimostrato che l’attività antileucemica del trapianto (GVL) è stata strettamente associata alla GVHD. Tuttavia l’intensità della GVHD cronica si riduceva nel tempo e la maggior parte dei pazienti dopo 6 anni dal trapianto riusciva a sospendere l’iimunosoppressione. I pazienti che erano vivi e liberi da malattia a6 anni dal trapianto avevano bassa probabilità (18%) di ricadute tardive, che d’altra parte erano indolenti e potevano acquisire risposte prolungate all’ibrutinib e/o ai linfociti del donatore (DLI).
Questi dati indicano che il trapianto allogenico permette lunghe sopravvivenze e verosimilmente guarigioni in una porzione di pazienti con LLC ad alto rischio, anche se portatori di una delezione o la mutazione della p53. Tenendo conto che dati preliminari indicano che il trapianto allogenico è sicuro ed efficace in pazienti che sono refrattari alla chemio-immunoterapia ma sensibili ad ibrutinib, l’opzione del trapianto allogenico dovrebbe parte dei nostri algoritmi terapeutici e dovrebbe essere discussa con i pazienti che rientrano nelle suddette categorie ad alto rischio.